@ Dublin #1


Graystone

Qualche riflessione da Dublino, sono qui per la mia formazione e vorrei condividere i miei pensieri con i lettori del sito.

Il primo impatto quando si lasciano le nostre abitudini e comodità è sempre un po’ traumatico: la casa non sembra così grandee comoda come la nostra, è lontana dal luogo dove dobbiamo recarci e la si dovrà condividere con perfetti sconosciuti che possiamo solo augurarci siano persone educate e pulite. In un primo momento cerchiamo di ritrovare qualcosa di familiare e allora magari si va a fare spesa nell’idea di poter almeno comprare un prodotto che ci ricorda i sapori di casa… e invece nulla forse qualche marca internazionale ma che comunque produce cose diverse, ecco lo sconforto e il primo pensiero distruttivo: “ma che ci sono venuta a fare?”.

Il nostro modo di percepire e reagire alla realtà mi affascina e sorprende ogni volta: ciò che appena arrivata mi sembrava la situazione più scomoda possibile piano piano è diventata familiare e comoda, in alcune situazioni fantastica (per esempio il gusto del bacon, la lavatrice con asciugatrice incorporata , la tv via cavo, la musica a Temple Bar, il sole mitigato da un brezza freschissima, le carinissime coinquiline e le numerosissime biblioteche popolate da libri antichissimi e preziosi).

Ho cercato anche questa volta di trarre il massimo dal punto di vista personale e professionale e purtroppo l’occasione si è presto presentata. Il terzo giorno andando verso il Trinity College proprio all’inizio di Dame Street trovo la città paralizzata, tre camionette dei pompieri, ambulanza e polizia tutti fermi a guardare con la mano e a tenersi la bocca quasi per non sapere  cosa dire o per non dirlo e inutile dire che il mio primo pensiero è stato “Deve essere successo qualcosa di grosso… i miei cari saranno terrorizzati per me io dovrei proprio essere in questa via a svolgere le mie attività” non è insolito prefigurarsi il peggior scenario possibile ed è anche ciò che a volte ci premette di fronteggiare ciò che poi si verifica nella realtà.

Non si trattava di un incidente o di un attentato ma di un ragazzo, quando l’ho visto ho avuto un sobbalzo, che stava in piedi a petto nudo proprio sulla punta della facciata di un palazzo e lui stava là cercando solo di decidere se buttarsi  o meno, cercando di perdere volontariamente l’equilibrio camminava a volte correndo velocemente in su e in giù per il grosso triangolo che costituiva l’ultima porzione di facciata. Ogni tanto si fermava con le mani a tenersi il volto, asciugava le lacrime e si metteva le mani sul capo in un mix di pentimento e disperazione. Le reazioni della gente sono state le più disparate: chi appena lo vedeva si voltava quasi correndo come a dire “non voglio essere qui quando si butterà”, chi come gli operai che svolgevano dei lavori proprio la sotto in gruppo sogghignavano, uno si è voltato e mi ha chiesto “You think is gonna do it?” un altro nel mezzo della folla ha urlato “Come on I’ll give you 15 euros if you jump!”, chi semplicemente stava là, pietrificato e chi con la bocca tra le mani non sapeva che pensare.

É orribile trovarsi davanti a scene come questa subito inizi a pensare “quale sarà la motivazione che lo ha portato qui? Lo farà? Ci sarà un negoziatore accanto a lui?” pensare di poter assistere alla morte di qualcuno è una sensazione tremenda, svolgendo la mia professione lo è stato anche di più poiché uno dei motivi che mi ha spinto ad occuparmi di questo è il desiderio di fornire speranza e fiducia a chi la si sta perdendo, in quei momenti in cui la via d’uscita sembra non esistere. Nel caso di quel ragazzo la via d’uscita c’è stata, dopo tre ore è stato tratto in salvo, ed io che passavo di là mentre tutto iniziava, come casualmente ripassavo di là mentre le persone applaudivano agli operatori di Polizia che abbracciandosi a facendosi segno di “tutto OK” (meno male alcune cose sono internazionali) ci facevano capire che era andato tutto bene.

Girando per la città si possono intravedere molte situazioni di disagio, uno dei problemi più radicati e visibili è quello dell’alcolismo ma anche la droga, il gioco d’azzardo e i disturbi psicologici che tutti conosciamo.

“People are people” o come diremmo noi “tutto il mondo è paese”, anche se preferisco la versione inglese…

Inizia cosi la mia avventura a Dublino fatta di felicità e sconforto, gratificazioni e paure ma soprattutto, come sempre di psicologia e emozioni.

E a te? Cosa succede quando viaggi? Ti mischi alla  cultura o vesti i panni del turista?

Una cosa che amo fare quando sono all’estero è cercare di parlare  con i locali, strappargli l’indicazione del ristorante dove andrebbero loro conoscere le loro abitudini, adottare il loro punto di vista, ci hai mai provato?